<Io sto ovunque mi conduci.
Qui sta la razza del poeta nato>

UNA LUNGA PUZZA

E’ del 1968 “Una lunga puzza”, che secondo alcuni critici rappresenta il momento più alto della poesia di Clemente Di Leo. “All’epoca – spiega Giuseppe Rosato, scrittore di Lanciano – gli si fece notare che quel titolo forse non era “appropriato” per un libro di poesie. Ma lui non volle sentir ragioni. E non lo cambiò, caparbio com’era>.
  <Forse è proprio così, sul rialzo a strapiombo sulla scogliera, io l’immagino proprio così la casa del doganiere Di Leo sulle balze della Maiella, e libeccio sferza da anni le vecchie mura / e il suono del tuo riso non è più lieto>: inizia in questo modo, Giuliano Manacorda, la prefazione del testo. E va avanti: <Quel riso che si fa triste o crucciato è certo quello di Clemente Di Leo, aspirante enfant terrible della nostra letteratura, ma che per fortuna tiene in serbo qualcosa di più di facili invettive che non scandalizzerebbero più nessuno o di qualche capacità di orecchiare e risfornare formulette poetiche.
  Quando ha pensato (forse) di esserlo un enfant terrible, Di Leo ha sbagliato tutto (o quasi), non ha calcolato che la gente ha mille cose a cui pensare, che di poeti e letterati alla porta ce n’è una coda sempre troppo lunga, che siamo (chi lo sa?) nella civiltà dei consumi e quello che conta, anche nel mondo della poesia, è il mercato, e dunque la ricerca della merce, e del suo produttore, che faccia all’uopo.
  Lui invece si è buttato con tutta l’ingenuità dei suoi vent’anni – perché tanti infine ne ha -, la foga della sua radice montanara e la sicumera del suo autodidattismo, e ha creduto se non di spaccar tutto almeno di giocar qualche scherzo che se ne parlasse per un pezzo. E naturalmente non ne è successo niente, al massimo un sospetto di più nei suoi confronti, un nuovo ostacolo per lui da superare.
  Ma la questione, io credo, è più grossa; non si tratta solo di qualche eccesso giovanile di Di Leo, si tratta del secolare e ben collaudato schermo difensivo che la società letteraria sa erigersi attorno per tenere a bada chi, a colpo d’occhio, non sembri facilmente integrabile, chi le carte in regola non ce le ha sul serio, chi non gioca a poeta irregolare ma vive davvero in maniera irregolare per un serio poeta d’oggi. Costui non fa nome, non fa titolo, non fa prezzo. E non si bada all’incredibile e quasi prodigiosa capacità che ha un ragazzo, poniamo Clemente Di Leo, di cogliere, con una sensibilità innata da far invidia a molti tanto più grossi di lui, che cosa vuol dire far poesia negli anni nostri.
  Certo Di Leo ha le sue letture, ha i suoi studi, ma il novanta per cento della sua poesia gli esce da quella fonte interiore e va a coincidere, con una stupefacente consonanza, con quelli che sono i modi più autentici del poetare oggi. Se Di Leo avrà dal mondo culturale italiano quella fiducia che gli spetta, se gli si concederà tempo e studio non per frenare ma per irrobustire il prorompere della sua poesia, forse non saremo cattivi profeti a pronosticargli un futuro pieno di lotte e di soddisfazioni>.
  <Di Leo, intendiamoci, non è un ingenuo, – prosegue Manacorda – sa benissimo qual è la condizione sfavorevole e qual è la sua forza – Venga avanti chi si dice poeta / qui lo voglio vedere, /anche tra gli sterchi dei muli / tra le ortiche mosce, – dove la qualità della poesia non si misura con la bontà della carta, dell’inchiostro o dei caratteri tipografici. C’è dello scherno, non cattiveria, c’è del risentimento ma non dell’invidia, c’è la constatazione del modo storto come vanno le cose del mondo, anche per la poesia. Ma poi c’è anche quello che conta, la vera poesia, che esce talora limpidissima dall’ingorgo dei versi che gli scoppiano alla gola e che Di Leo non sa o non vuole frenare, perché istintivamente sente che in quella sovrabbondanza è anche la garanzia del suo esser poeta.
  E naturalmente questa vera poesia c’è quando Di Leo rinunzia ad un’acredine precostituita e troppo estroversa (ma è poi davvero da negare validità ai suoi epigrammi?), e il tormento delle sue contraddizioni gli brucia dentro e l’amarezza lo corrode e l’esalta insieme.
Ultimo figlio del bosco
non parto senza un tatuaggio,
una radice che trafori i basalti
si incendi nel mezzo del magma
per rifiorire dai crateri nel cielo

Tu che sommuovi le sopracciglia
davanti a questo viso longobardo
alla sua voce vulcanica
e abbrividisci,
non resisti
tra le giacche inamidite dei parenti
tra le sedie messe in fila dal ferraio

o quando il suo paesaggio gli si configura in una lucentezza mitica

… ma i pastori sulla breccia
dei colli – urne di Annibale –
sono misere scaglie,
e sbuchi dalla terra dei serpi
salutando il letto di cartocci
l’ultimo lupo squarciato nel ventre

o il sentimento d’amore diventa, anch’esso tormento

Ora lo vedi, amica; la mia
strada è l’assurdo e segui
uno stupido narciso in una
infinita conca di letame

e persino quando la disperazione lo porta a gridare il rovesciamento di ogni onesto giudizio – Non mi frega niente del Vietnam / perché non compro giornali –  o la dolente coscienza di uomo del sud vien fuori dallo schermo di troppo labili difese, o quando infine Di Leo si mette a tu per tu con la poesia e si detta un’epigrafe crudele e fedele

Poesia, ti ho in mano come una mela marcia
ma se ti lancio, brilli come una cometa.
Averti addosso è una lunga puzza
ma se ti dico <Su, entriamo anche noi>
tu ti fai grande signora
ed io un cavallo odoroso.
Suggestione del presentatore.
Noi in una sala pulita
non abbiamo niente da fare.

Si considerino questi versi e tutti quelli, o gran parte, contenuti nella raccolta, e si vedrà che sempre vi si sottende un denominatore comune, la fede quasi fanatica, esaltata nel verbo poetico; il far poesia per Di Leo non è un di più ma coincide col vivere, lo ha detto lui stesso. <Non appartengo alla poesia letteraria ma a quella vissuta>. Oltre quello stendere versi non ci sono cattedre, collaborazioni, consulenze, frequentazioni, c’è lo staccare bollette del dazio e cercare di non farsi imbrogliare troppo da qualche mercante. C’è il non vivere, quello che conta è tutto dall’altra parte, nel demone che lo ha spinto già a vergare (e in gran parte a distruggere) migliaia di versi, e che si ricarica ogni giorno di un entusiasmo nuovo.
  Qualche esemplare di questa attività sregolata e febbrile è già apparso in volumetti di pochi grammi e, probabilmente, di pochissimi lettori; altri esemplari appaiono, oggi, ancora semiclandestini, ancora fuori della cultura “ufficiale”. C’è da domandarsi fino a quando le nostre lettere potranno permettersi il lusso di tenere in quarantena queste autentiche energie che erompono miracolosamente dal fondo della più incredibile provincia, se non sia una vera colpa storica stringere all’angolo, bloccare, avvilire fino all’inevitabile nausea e al silenzio chi si avrebbe il dovere di sollecitare e incoraggiare.

 

Di seguito l’elenco delle poesie contenute nel testo:

UNA LUNGA PUZZA
Edizioni dell’autore – 1968

La razza del poeta
Una pietra di paragone
Improvvisazioni
Venga avanti chi si dice poeta
Cinno
Emily
Messaggio
Signorina maestra
L’azzurro colombo
Ti scrivo
Agosto
Atlantico
Comunicazioni
Settemila notti
Ti dico viviamo
Al tuo poeta
Non ucciderti
Bella azzittita
La schiuma del noce
La ragione
La Veronese
La canoa di Raffaello
La terra di Eva
Regina di fate
Questa epidermide mobile
Lega il tuo cavallo
Su una lastra di marmo
Incendio alla stazione
Definizione
Due sono le strade
Mattino politico
L’isola turchese
La scoperta del bluff
I patriarchi
Ora lo vedi, amica
Attrazione
Le mele dei pidocchi
Preghiera
Arlecchino
La bilancia
Notte abbracciami
Il cappello di canapa
Epigrammi
La mia libreria
Il risvolto della medaglia
Tre palle di neve
Risveglio
Il mio debole
Note di bordo
Non mi frega del Vietnam
La fine del cappello
La via dei tufi
La grammatica
Lettera
La tua bocca
In questa nave di nebbia
Cane raggiante di sole
L’assenza del lettore
Sono le dieci e venti
Vino, uccello blu
Il pittore adolescente
Rubare la tua vita
Sul mare
Salute o rondini
Sei dolce come una caramella
Cornice
A bestia
Mimma
L’orologio
La città da prendere
Ieri notte
Le fave
L’anima, il gambero
Se entrassi, cara, dalla tua porta
Ridatemi le carte
Poesia
Come volo stamattina
Nonna
Quello col giubbotto rosso
Ma di che libertà parli
Come un cane che vale
Questa terra asfissiante
Resoconto
Cristo, se tu fossi in vita
Amico, non so per quale ragione
Ti vanti che sei stato in Germania
Ricordo di Pesaro
Culmine
Poeti come me
La gattaia
Il gufo azzurro
Nel tempo
La Città Reale
Abbozzo per un poema d’inverno