Critica

Attaccate alle nostre parole – l’anima___di Antonio Allegrini

Attaccate alle nostre parole – l’anima

di Antonio Allegrini

 

Con Dino fu subito amicizia.
Si era molto giovani, semplici e allora c’era una fede, una speranza nella vita, nella poesia.
Attaccate alle nostre parole – l’anima. Vie silenziose al sole, sulla terra arcana, su una terra che custodirà forse i nostri abbandoni. Schioccavano gli occhi nel folto sonoro di boschi che figliavano misteri su misteri, placide forze benevole.
Sui nostri destini l’invisibile calpestio del tempo.
Di un tempo che per lui divenne furia implacabile.
A volte un padiglione di api minacciava le nostre teste piene di luci primaverili.
Malie profumate ci resero felici.
Cara felicità – effimera. Felicità di latte fresco rovesciato a secchi su versi che pascolavano innocenti, chiamando tenerezze su brevi orizzonti.
Fragili calendule, viole, ginestre crescevano sui nostri sguardi, nei respiri frastornati da una gioia di menta selvatica. Sguardi risvegliati da invisibili ardori.
  Con te, amico, saranno sempre inchiodate le grida che lanciammo al tramonto perché non si spegnesse il sole, non annegasse veloce, irrevocabile, nel cerchio dei monti.
  Quel lontano tramonto che non ti portò nessuna alba. Nessun risveglio. S’accenderà sulla tomba dei padri il canto di un vento randagio a cullare il tuo immemore sonno.
Riecheggerà a lungo – lamentoso nell’etere – il battere di una catena d’oro su una stagione spezzata.
Mi par di ascoltare ancora una volta nell’orecchio la tua voce beffarda, aerea come un breve sospiro: «E’ lieve la morte, leggera – ed è bello andarsene via in silenzio, partire da giovani per essere risparmiati dal mondo …»  . 

_____________________________________________________da “Un nome tra le pietre”,  Edizioni Noubs (Chieti)  – 1996

Il saltimbanco della Majella___di Pietro Civitareale

Il saltimbanco della Majellalla

di Pietro Civitareale

 

 

[…] Nata da un temperamento esuberante ed iperbolico, la poesia del Di Leo si fa a volte di un lirismo acceso, ossessivo, non sufficientemente mimetizzato nell’andamento del tono narrativo o drammatico assunto spesso dalla sua ispirazione: “I papaveri erano tutti rossi/ … il sole scendeva dall’altra parte tingendo di un bel rosa le colline incenerite/ con l’effetto di un rossetto sulle labbra marce di una vecchia” – indicazione che tuttavia mette bene in risalto l’elemento di amaro gioco e di corrosiva monelleria presente nei suoi versi.
  “Il mio corpo è un quercia verde/ e passo per le strade come un guappo: saluto gente che non conosco/ piglio una pesca ai fruttivendoli/ con la scusa dell’assaggio/ cavo un sorriso agli autisti che frenano sui miei piedi/ Olà, siamo tutti in gamba!”
  Ma il monello non è altro, per rubare un’espressione a Palazzeschi, che “il saltimbanco dell’anima sua” ed il giocoliere si esibisce più perse stesso che per la sua fede estetica o, mettiamo, politica, mirando non tanto ad alzare l’evoluzione dell’autoironia, quanto a farla discendere all’autoparodia. […]

__________________________________________

_______________________________________________________________________da “Il Rigamatta”, 16 febbraio 1971

Per Clemente Di Leo___di Giuliano Manacorda

Per Clemente Di Leo

di Giuliano Manacorda

Andai la prima  volta a Colle di Macine mi pare nella primavera del ’65 e lì conobbi il giovanissimo Clemente Di Leo; mi impressionò il piglio della sua parola, l’amore per la poesia e presto anche la sua gentilezza e la sua disponibilità quando io per non so quale accidente (a ben ricordo a Teramo) zoppicavo vistosamente dopo l’incontro pubblico e fu lui ad accompagnarmi e poi a fermarsi e a parlare – naturalmente di poesia.
Mi dette da leggere i suoi versi e io rimasi stupito e ammirato dalla sapienza di un giovane che credevo sprovveduto di ogni “scuola” e che a prima lettura mi si rivelava per il trapianto delle sue particolarissime esperienze di estrema provincia, in una sapienza e un gusto che mi impressionarono.
Clemente non ha, se così possiamo dire, un “primo tempo” poetico, la coincidenza tra adolescenza, poesia vita è perfetta, ma non per un autobiografismo facile e risaputo: c’è in lui – al di là di ogni cronaca – il rispecchiamento assoluto tra il suo essere e il dire; ma quel che più sorprende è che la sua parola e i suoi versi coincidono anche con i più alti livelli della poesia italiana dei suoi anni. Insomma, la poesia di Clemente compie quel difficile prodigio di non essere mai stata di un principiante e di nascere in perfetta armonia con la sua poesia italiana dei suoi anni solo aggiungendovi la passione della sua personale esperienza.
Sono questi, a noi pare, i tre elementi fondamentali della sua poesia: la precocità, le invenzioni personali, la coincidenza con quanto  in quegli anni  si andava scrivendo in Italia nei testi poetici. Dire che Clemente Di Leo nasca poeta non è la solita e quasi impropria espressione che si usa per indicare certi infantili verseggiatori che non entreranno mai entro i confini dell’arte; Di Leo, al contrario, entro quei confini vi è entrato subito e non ne è mai uscito, solo arricchendoli e perfezionandoli: vi è entrato quasi per innata e poi coltivata sapienza, per istinto ma subito corretto nei modi degli anni in cui lui veniva scrivendo: la parola che gli scoppia alla gola – come lui dice – coincide quasi miracolosamente con quanto nei suoi brevi anni si faceva dai porti autorizzati.
E tuttavia sarebbe un erroneo ritratto di lui quello che lo riducesse al “poeta ut puer” che trae miracolosamente i versi da un patrimonio interiore posseduto per diritto di nascita; ché c’è, nella sua brevissima stagione, una cosciente acquisizione artistico-culturale da cui può attingere, con piena coscienza e con gusto sapiente e maturo, la scintilla del suo verso. Ne è testimonianza la breve storia delle sue composizioni, dalla quartina alla misura del poemetto, sicura espressione non solo di una maggiore maestria del verso ma di una ricchezza interiore che si veniva completando con un parola più densa e complessa, dai “Frantumi” alle composizioni ampie e articolate, dal distico al poema; un percorso sicuro e purtroppo non verificabile oltre, e tuttavia sufficiente a riconoscervi nella sua breve storia l’itinerario di un vitale impegno artistico purtroppo interrotto alla vigilia di una definitiva presenza nella poesia italiana del secondo Novecento.

____________________________________________________________________________________Inverno 2006

Clemente di Leo è morto___di Giuseppe Rosato

Clemente di Leo è morto

di Giuseppe Rosato

 

    Clemente di Leo è morto il 5 luglio, a Colledimacine (Chieti), paese dove era nato il 30 marzo del 1946. La sua breve esistenza ha coinciso per metà della sua durata con una ragione di vita che ogni giorno si riproponeva e si accresceva, facendosi sempre più dispotica, ed esclusivizzante, al cospetto di tutte le altre ragioni alle quali normalmente attinge la vita di un ragazzo. Sonerà sorprendente, perché al di fuori della pratica consueta in cui si conduce la nostra realtà quotidiana, che quella ragione unica fosse la poesia: ragione di vita e, ora lo si può dire, ragione di morte. Perché per quella sua poesia Clemente di Leo aveva speso più di quanto gli fosse consentito; da quando, dodicenne, gli avevano scoperto un vizio cardiaco che ne aveva consigliato addirittura il prudenziale ritiro dalla scuola. Aveva frequentato appena la prima media.
    Uscito dalla scuola, così repentinamente, era allora che si apriva per Di Leo una specie di diverso paradiso. I libri di scuola non gliel’avevano forse che indicato di lontano. Fatalisticamente, si direbbe che l’abbandono degli studi regolari era l’indispensabile premessa per quanto poi gli sarebbe accaduto, lo spartiacque che distogliendolo dalle carriere consuete che possono aprirsi a un giovane studente contadino lo avviava lungo un versante inusuale. Si sarebbe diplomato, sarebbe andato all’università a studiare chimica come fa il fratello, sennò a sedici o diciotto anni avrebbe seguito il padre in Germania, nel Nord Westfalia dov’è operaio in una fabbrica di tappetini per automobili. Invece, è divenuto poeta. Ha letto assai di più di quanto avrebbe letto a scuola, ha scritto imparagonabilmente di più, ha speso un numero di notti infinitamente maggiore di quante gliene avrebbe chieste l’esame più cattivo. Com’è di ogni amore naturale, libero e non imposto da nessuno, Di Leo si dava alla poesia senza risparmiarsi; come in ogni amore vero, i dolori e le amarezze lo nutrivano non meno che le gioie. Né c’era gesto che di quell’amore non rivelasse vistosamente ogni segno.
    E’ presto perché si possa dire non approssimativamente che cosa sia sortito da tanto amore. La morte è sopravvenuta quando appena qualcuno aveva preso a interessarsi seriamente a Di Leo, dico seriamente giacché finora piuttosto se n’era parlato come di un caso, aperto a tutte le diffidenze connesse. Occorrerà perciò riprendere tutto intero il lavoro da lui prodotto, mettere mano agli inediti, giungere a una pubblicazione organica a cui egli, in effetti, non era approdato se non – direi – con il volume più omogeneo tra i cinque pubblicati, Una lunga puzza. Intanto, mi pare non inutile richiamare sobriamente le tappe attraverso le quali era passata la sua produzione.
    L’esordio fu un misto di ingenuità e di curiosa furberia. Frammento lirico (l963) e Cimeli (1964) furono due raccoltine recanti il nome di Clemente di Leo quale editore, ma aventi per presunto autore un Massimo Rocovic e per presentatore-esegeta un Leo Fosco, che altri non erano se non lo stesso Di Leo. Il gusto di mimetizzarsi si protrasse per qualche tempo, fino al dicembre del ’65, quando Il Ponte pubblicò un gruppetto di componimenti, Frammenti d’una reggia azzurra, a firma di Antonino Teseo. Chi era? Una premessa spiegava, tra l’altro: «nacque il 20 maggio 1944 a Campotosto (L’Aquila) da un’umile famiglia contadina; nell’ottobre 1963 si trasferì a Milano trovando lavoro nell’industria edilizia. Da Milano fuggì il 12 luglio scorso diretto alla casa natìa, ma, qui giunto, si suicidò gettandosi in un dirupo». I versi, che erano stati mandati anche a me, manoscritti, con una lettera di presentazione di Clemente di Leo, sapevano troppo di lui. In uno scritto, che Il Ponte pubblicò nel luglio del ’66, rivelavo l’identità Teseo-Di Leo, ma non per biasimare l’invenzione. Scrivevo infatti:. «… partiremmo di lì per meditare su una situazione, soprattutto spirituale, che non è certo soltanto del Di Leo e della sua Colledimacine. La “provincia culturale” è fenomeno vecchio, ma dentro di essa c’è un altro fenomeno, certo più drammatico, che è l’isolamento al quale restano condannati, appunto in provincia, quelli che non abbiano le ‘carte’ in regola (e leggasi titolo di studio, laurea possibilmente). Per fortuna, dà questi isolati vengono spesso le cose migliori…»; e concludevo, invitando l’autore del curioso falso a scoprirsi: «non ci resta che incitarlo ad una maggiore fiducia, che lo convinca a presentarsi nelle sue vesti reali, che ci sembrano già ben adatte ad una dignitosa uscita nella buona società letteraria».
    Usciva infatti, lo stesso anno ’66, e con lo stesso titolo delle poesie pubblicate sul Ponte, la prima raccolta recante la firma autentica di Di Leo: Frammenti d’una reggia azzurra, Muscente, Milano. Ancora nel ’66, e poi nel ’67, altri versi apparivano in alcune riviste, tra cui Letteratura e Dimensioni. Nell’ottobre del ’68 usciva, in edizione propria stampata a Pescara, il volume Una lunga puzza, con introduzione di Giuliano Manacorda. Altri versi pubblicava ancora Dimensioni (dicembre 1969). Quindi, il volumetto Gilgàmesh (edizioni La Madia, L’Aquila), una raccolta che aveva vinto il premio per inediti «La Madia d’oro 1970», conferito a Di Leo il 28 giugno. Sette giorni prima della morte…
    Per quel che riguarda il materiale inedito, penso opportuno rifarsi alla nota apparsa sul n.1-2, 1970, di questa rivista («Note operative e notizie dei collaboratori di questo fascicolo», pag. 72). In essa Di Leo asseriva di avere nel cassetto «circa 3.000 versi inediti, raccolti in un quaderno dal titolo Manuale di appunti, un atto unico dal titolo Arlecchino, e alcune pagine di un romanzo che pigrizia e sfiducia nella letteratura in genere non mi permettono finora di riprendere e terminare». Di Leo ci aveva inviata questa notizia da accompagnarsi alla pubblicazione, nel «fuori testo», del suo intervento Scopriamo le nostre carte.
    Si tratta, tre editi e inediti, di una produzione di proporzioni sconcertanti. Ma non direi, come parrebbe d’obbligo nella circostanza di una dipartita così prematura, che «chi sa che cos’altro egli ci avrebbe dato». Non solo perché ciò che ci ha dato è già tanto, ma perché credo che sia tale da denotare e connotare compiutamente un poeta, inserendolo però nel contesto di ben precise condizioni ambientali e di età. Mutate queste, sarebbe potuto succedere (e ricordo quel qualcosa di simile che stava capitando a un poeta il cui richiamo a proposito, di Di Leo si fa immediato e pertinente, Rocco Scotellaro) che avremmo avuto un altro Di Leo. Restiamo dunque al primo, a quello che abbiamo conosciuto, badando semmai a conoscerlo fino in fondo. I versi che abbiamo qui sopra pubblicati, e che ci erano stati da lui inviati circa un anno fa, sono ancor essi emblematici, tra i più sintomatici per la definizione di una poetica.

                                                                                                                      da “Dimensioni”, numero 3/4 – agosto 1970

 

Di quei versi taglienti___di Giuseppe Rosato

Di quei versi taglienti

di Giuseppe Rosato

 

(…) Era un poeta nativo, come si usa dire, dotato però di una ricca informazione, spaziante sia pure episodicamente, dai classici ai “novissimi”, con numerose infiltrazioni straniere. La sua forza stava nel dire tutto, anche quello che poeti più raffinati avrebbero taciuto. E la sua personalità era già fatta, nonostante la giovane età; né egli temeva palesarsi qual era, non schermiva con studiate difese il suo temperamento acceso, non privo di impuntature. Ma proprio per questo, nelle nostre giornate intessute di compromessi, ci ricorderemo a lungo dei suoi versi taglienti, ignari delle accortezze suggerite dalla discrezione.
  Di Leo era così, quello che comodamente si dice “un irregolare”, e lo sapeva. “Sono un gettone sbagliato” aveva scritto, ancora, “che non entra, non fa scattare nessun  giubbox”. Aveva ragione, ma solo nel senso che dal congegno della sua breve esistenza non altro doveva scattare se non quella poesia, che però bastava essa sola a farsi ragione di vivere.

Un poeta ignorato__di Benito Sablone

Un poeta ignorato

di Benito Sablone

Le ragioni della diplomazia culturale impongono un linguaggio metaforico e spesso lezioso nei confronti dei padroni della critica letteraria. Nessuno se la sente di dire, in maniera chiara e senza allusioni fumose, che il nostro periodo storico, caratterizzato dalla doppiezza e dal servilismo più osceno, vive in balìa di un gruppo arroccato alle pendici del Campidoglio o nei paraggi di via Solferino. La verità nuda e cruda spaventa, ma ancor più dovrebbe dare brividi di terrore la mancanza di referenti etici, di punti di riferimento al di sopra delle parti. Oggi non basta scrivere un buon libro, ma è indispensabile proporsi con l’avallo di una forte sigla editoriale. E’ un vecchio argomento, questo; un argomento che è diventato un luogo comune: riesumarlo non suscita nessun disagio, al più fa sorridere. Tuttavia per chi è informato correttamente della situazione della nostra cultura, è indispensabile richiamarsi a questo dato di fatto per spiegare e spiegarsi perché, ad esempio, un fatto eclatante e di notevole portata, come quello di Clemente Di Leo, sia rimasto soffocato nell’angustia regionale e relegato in alcune antologie, come se questo poeta straordinario non potesse avere, neanche dopo morto, lo spazio che merita e che tutti, in qualche modo, gli riconoscono. Ma solo a parole.
 Le maschere e le cortine dietro cui Di Leo si nascose furono molte; egli aveva capito che insieme al talento, che sentivaribollirgli dentro doveva, in un mondo di volpi, utilizzare l’astuzia. Dopo una esperienza leopardiana, che troviamo registrata in “Cimeli”, e dopo un silenzio che doveva pesargli addosso come una cappa di piombo, approdò finalmente ai “Frantumi di una reggia azzurra” (1966), il libro che, secondo Giuliano Manacorda, può essere considerato l’ opera della sua prima maturità poetica, il luogo dove il poeta ha condensato il nucleo delle esperienze fino ad allora decantate e giunte ad una espressività talvolta incantevole. Ecco la sua luna d’ aprile: “In alto c’è la luna d’aprile/e corre nell’ aria un fremito/ di giovenche sciolte/a galoppo sui colli bianchi./ E’tempo di baci”.
  La sua sensibilità, nel mentre , si era affinata, il linguaggio dirozzato dagli arcaismi, dagli eccessi e dalle ingenuità, erano cadute quasi tutte le scorie classiche e neoclassiche, frutto di letture disordinate e febbrili. L’ autodidattismo, che lo aveva portato a vagare nel labirinto della scrittura, facendogli temere che non ne sarebbe mai uscito /alla fine aveva imboccato la via giusta. Si era, evidentemente, accostato con più passione e rigore alle esperienze contemporanee di italiani e stranieri (molti elementi rivelano che nel suo bagaglio c’ erano autori inglesi, francesi, tedeschi, sudamericani, né saranno sfuggiti alla sua rapacità Lorca e i surrealisti), traendone stimoli e linfa per progredire nella sua ricerca. Di ricerca si tratta, infatti. Il giovane si era, nel frattempo, fatto scaltro se nella sua produzione si possono vedere in filigrana i nomi che caratterizzano il nostro Novecento e se, visti inutili i tentativi diretti, escogita un espediente per farsi pubblicare su una rivista di seria reputazione. E’ così che nel luglio del 1966 finiranno su “II Ponte” molti di quei “frantu­mi azzurri” che presenterà come lascito di un giovane amico, Antonio Teseo, morto suicida. Ne derivò una piccola ma fortunata polemica e, naturalmente, si seppe che il vero autore, che non aveva nessun titolo di studio al di sopra di quello elementa­re, viveva a Colledimacine e faceva il daziere.
  Nel 1968 appare “Una lunga puzza” dove emerge “un impegno politico senza dogmi”, cioè in favore dell’ uomo e della vita. “Gilgamesh”, infine, viene pubblicato in seguito al concorso aquilano “La Madia d’Oro”. Si tratta di un lungo poemetto mitologico la cui analisi ci porterebbe lontani e sfaterebbe per sempre l’ idea che Clemente è un poeta naif. E’ il 1970, “leggiadra sui floridi colli/corre la vita,/ e nera nell’ atro buio/ della vecchiezza/erra e sparisce la Morte”.
  Nel 1985 le edizioni Bastogi, in una collana diretta dallo scrivente pubblicarono una antologia pressoché completa di “Poesie” di Clemente Di Leo con una prefazione di Giuliano Manacorda e per la cura di Laura Romani. Dopo, il silenzio. Ma il discorso può essere ripreso- ed è auspicabile – dando alle stampe due manoscritti di cui si hanno notizia: “La conquista del vero” e “Apologia da zero”.
 Chi raccoglierà la sfida? A quasi un quarto di secolo dalla scomparsa del poeta di Colledimacine riproporne la lettura e lo studio è l’unico impegno utile e necessario che possiamo assumerci. Con la speranza di non rimanere soli.

 

Da ” II Messaggero”, 12 Agosto 1993

da “II Mattino” – Napoli – 2 dicembre 1970

Un'altra stretta__di Giammario Sgattoni

Un’altra stretta

– in memoria di Clemente Di Leo –

di Giammario Sgattoni

II custode mi osserva e poi mi porge
una sedia, è claudicante, non
mi ha dimenticato: il primo giorno,
all’ iscrizione del congresso, fu
lui che mi indicò – tra i suoi colleghi –
la “sala damascena”, ora comprende
che la sua ala m’ interessa e vuole
proprio che non mi stanchi, la minuscola
tavoletta d’ argilla porta impressi
trenta segni fatali,
e sillabammo
da allora questa foia, trenta lettere
d’ un alfabeto inciso con acume
sino al fondo dell’ omega, tremila-quattrocento
gli annali della “storia”
fino al giorno del nostro buio, tesi
a scandire in segreto come allora
queste nostre perifrasi, perduti
nell’eterna Babele…
(E alla ripresa
notturna del racconto, dopo giorni
di tedio e di fervore, con Gioietta
volata di lontano a riportare     
dai suoi mari sconvolti una favilla
di sole nell’ autunno.
E’ necessario
aprire la parentesi, annotare
che il ventisei novembre a mezzanotte
la radio dice delle due sorelle
trovate morte in un appartamento romano di Trastevere, la prima
ormai da quattro giorni e la seconda
suicida con il gas per il pavore
di rimanere sola:
un episodio
uno dei mille cha da più millenni
ci dovrebbe convincere che questi
son giochi di parole, e la tensione
è vana se il dolore cresce e l’ uomo
ha il suo lampo bestiale, se il fratello è tuttora Caino:
e non ci sfranca
da ire innaferno manco questa
presunta intelligenza colloquiale,
questo appigliarsi a un modulo antiquato per superare l’avanguardia, questo
sorridere di ma in fondo credere
se ancora non si tace – che la vita
e la morte, il destino, l’odio, il pane,
il coito, l’ amicizia, siano questa
pervicace illusione
e selenita
polvere invece noi già siamo e oscuri
lorderemo scafandri ad astronauti
viventi chissà dove,
ed una volta
consolarsi era facile, sapere
LA FINE era agli aedi la certezza
di non morire in tutto,
e invece io canto
pur oggi a gola piena ma ad un tratto la penna mi si spezza,
questa stanza si fa più grande, i mobili più poveri,
s’ode persino il piccolo orologio da polso al comodino,
e il tempo vola, le fanciulle scompaiono ,
 il castello si disfa, è cartapesta è presunzione,
due sorelle son morte, c’è il dolore
e la pioggia, ed il vento, la persiana
ancora sbatte, il freddo è più pungente,
chiudiamo la parentesi, dormiamo,
finiamo un altro giorno,
un’ altra stretta
di mano a questa MOIRA che ci guarda
ridendo, e canto e gelo si confondono,
sono bianche lenzuola, è l’abat-jour che si spegne.
A domani.
Buonanotte).

 

da “Dimensioni” n.3/4, agosto 1970

La razza del poeta nato__di Rolando D’Alonzo

La razza del poeta nato

di Rolando D’Alonzo

[…] Si va per strade di montagna a incontrare i galoppini dell’ Onorevole, ma scorgiamo solo capre baffute ed eleganti chalet con le porte sprangate.
Il resto è noia. Ma c’è la partita la domenica. E dopotutto la linea dell’ energia elettrica è stata prolungata. Si potrà avere luce artificiale anche nelle stalle. Le vacche fanno poco latte. Non è facile sopportare la concorrenza lombarda. Viva Vittorio Veneto!
  Erano fermi col camion davanti la porta del dazio e aspettavano fumando, quei beduini delle montagne che trasportavano pelli di montone all’andata, concimi, liquori, olio e saponette al ritorno.
  Venne avanti il daziere col suo passo da brigante (era salito un minuto a casa a prendersi quel libro di Alexandernevskij e una mela piana da sbocconcellare camminando). Controllò attentamente le bollette, e ci mise un po’ di tempo, osservando con circospezione le scatole di cartone con la scritta della merce, per non farsi rubare sul peso. Incassò il pedaggio, chiudendo i soldi di carta nel pugno, come fossero una manciata di fave e se ne tornò nel piccolo ufficio comunale, mentre il Leoncino spariva giù nella strada.
  Dalle montagne scese turbinando una folata di vento traditore, di quelle che fanno sbattere porte e finestre all’ improvviso, intrecciare irrimediabilmente le matasse di lana colorata appese ad asciugare in quel di Fara e di Taranta Peligna, e sollevare nuvole di polvere, pagliuzze e piume di gallina nei vicoli.
  Clementino spalancò sul tavolino il foglio e cominciò:
“Caro Arnaldo,
se vengo al convegno di poesia lo faccio per rivedere gli amici e scambiare quattro chiacchiere di quelle che possiamo fare solo noi. Per il resto sai bene che non ci credo: è una pagliacciata vera e propria. Ma vengo lo stesso con i miei scritti e la mia voglia di attaccare polemiche, soprattutto con i paraninfi dal braccio d’ oro, che pretendono di giustificare, o meglio di mascherare con la teoria e una fasulla documentazione accademica la loro incapacità creativa, la malafede coltivata come le fragole (in serra, con asso di cuori), l’ aridità di una fantasia ammuffita (ma poi, hanno mai avuto fantasia?). In compenso hanno frequentato corsi regolari nelle scuole di rito e scritto diligenti articoletti sui gazzettini. E insegneremo loro a comporre versi da uomini vivi, e semmai a coltivare — verseggiando — pomodori, patate e cetrioli: le opere e i giorni alla maniera nostra. Strutturalismo e ortocultura. In ogni caso, dì loro che siamo anche esperti in puericultura e in gerontologia.
Ciao, a presto.
P.S. Dobbiamo dedicarci alla gente sincera noi. I primi della classe servono solo in classe, alle famiglie e allo zio commendatore.”
Ripiegò il foglio e lo infilò in una busta coll’indirizzo e lo consegnò al postino.
Poi riprese la lettura, interrotta solo da rari controlli di merce, perché non erano quelli giorni di fiera o di mercato.
  Passava dunque le giornate Dino tra l’ufficio del «doganiere», le passeggiate in montagna, in quei luoghi scoscesi e primordiali dove, d’ estate, aveva condotto due amiche venute a trovarlo da Munchen e da Strasburgo, e lo studio e lo scrivere. Quando scriveva se ne andava nella stanzetta bianca di calce dalla volta con le travi gialle, ingombra di casse da imballaggio, libri, carte, quaderni, manifesti accatastati un po’ dovunque sulle sedie di paglia. Ma era anche capace di stendere un poema sul banco di una trattoria, conversando con l’ ostessa sul carovita e il brigantaggio organizzato.
Qualche partita a carte dopo cena alla cantina, come quando era ragazzo, a soldi o senza soldi (anni addietro con i soldi delle vincite s’era comperato il suo primo vocabolario d’italiano, che gli servì egregiamente durante la sua carriera di autodidatta, cominciata alla quinta elementare).
Scrivere lettere ai paesani che cercavano lavoro, sussidi e pensione o che dovevano emigrare in Svizzera, Belgio e Germania.
 Un pomeriggio ventoso, il cielo azzurro spazzato, i vicoli profumavano di fumo e fieno tagliato, Dino scese gli scalini della sua casa, salutò la madre anziana, gettandosi il giaccone impermeabile sulle spalle, da montanaro normanno. Nella borsa erano insaccati rotoli di carta e quaderni, due libri, spazzolino, asciugamani e calzini di ricambio. Appeso alla schiena il pacco piatto del sacco a pelo americano comprato — tremila lire — a Porta Portese.
  Prese lo stradone cercando un casuale passaggio sulla macchina del medico o del farmacista, al limite avrebbe preso la corriera delle cinque, giù al bivio.
  Il Convegno di Poesia fu un vero successo di stampa e di critica. Come al solito, il rituale di turno, dove i migliori – avendo molta stima di sé, necessariamente – s’erano dati a teorizzare sul fattore semiologico, sulla percezione, su De Saussure, sui formalisti russi, sulla struttura semantica delle parole adoperate nel contesto dei nuovi metri differenziati con cadenze e aforismi in una diacronica successione di fatti di cronache di modelli che Lukàcs e Benjamin riporterebbero nella dimensione di un assunto marxianamente corretto. Di questi tempi, poi!
  Ad un tratto Clementino balzò in piedi come un avvoltoio che spalanchi le ali per intraprendere il grande volo di «ripulitura», e richiamò l’uditorio sull’utilità di tracciare un esauriente profilo critico del migliore coltivatore di barbabietole della provincia e ricordò come tra gli acquirenti di giornali e fra i lettori delle sue poesie il bicchiere si chiamasse bicchiere e non contenitore contenente, e il vino vino. La metafora ha ben servito banchieri e mercenari, per secoli interi. Che senso ha la poesia?
Naturalmente un poeta affermato, con tanto di laurea, pubblicazioni da Feltrinelli ed Einaudi, magari con qualche articolo sull’ Espresso, potrà ben ricevere una collaborazione televisiva – culturali speciali e buon cachet – dietro l’avallo del buon padrino Tullio. La poesia è. Noi siamo. Servire il popolo.
  Non ci furono letture di versi. Né chiacchierate sulle esperienze passate. I versi Clementino li andò leggendo, anzi declamando per le strade della città multicolore e balneare (aveva abbandonato la sala del convegno assieme a Tonino, giunto in tempo da Firenze, e alle due più belle ragazzedell’uditorio, rimaste affascinate dal gusto naif di dire e « sentire » la verità). Fino a sera tardi per i marciapiedi, tra una pizzeriaun giornalaio e un grande magazzino a comperare carta igienica e stuzzicadenti. E anche negozi: ceramiche e abbigliamento, tabaccai e salsamenterie. Non che amassero i negozi, ma perché lì dentro era più facile distribuire i disegni che faceva Lucio. Li avevano appesi anche sugli alberi e lungo i muri.
  Lucio aveva ritratto sugli angoli dei palazzitutti gli aspetti della cattiva coscienza della città. Il migliore pittore del giorno, un nuovo Picasso, il cui segno, come il rigore matematico-dialettico, spaccava in due monconi puzzolenti la grassa indifferenza del budellame umano.
  Le donne volevano andare a sciacquarsi i piedi, erano stanche; dalla mattina a girare sui calli della città con il poeta favoloso venuto dalla montagna, con le tavole della verità come un patriarca…
  Fecero un salto da Geppy, poi la notte di nuovo sulla spiaggia o in una bettola dignitosa.
— Si va domani tutti a Firenze?
Sarebbe bello andare a trovare Gianni a Losanna o Peppino a Munster.
— Cerchiamo una macchina e si va tutti assieme.
  Dino declamava le sue poesie con rabbia. Componeva anche nelle circostanze più strane, lì per lì, al momento e ti spiattellava un distico o un sonetto come un saluto perfetto o un’affettuosa manata alle spalle che ti scrollavano dal sonno, e dalla stanchezza.
  Di Leo lo avevo conosciuto – sulla carta – nel ‘62, quando un mio amico, che era stato medico condotto a Colledimacine, riportò un singolare volumetto dal titolo «Cimeli»: l’autore Massimo Rocovic. E disse l’amico Rocco che l’uomo era ancora più interessante dell’artista. Ospitale, aperto, leale e soprattutto genialissimo nelle convenzioni sociali che la pratica aveva reso banali. Un poeta serissimo che riusciva, quando voleva, a condurre memorabili battaglie anche in occasione di elezioni amministrative e politiche.
Ma poi venne la stagione dell’ intellighentzia setacciata del libretto rosso per salotti rosa.
  Aveva provato ad organizzare una certa resistenza interna per far fronte al grave problema dello spopolamento della montagna. Aveva aiutato molti suoi coetanei a difendersi con le unghie ma la piovra elettorale otteneva il sopravvento grazie alla debolezza umana. Non ci si vede per la fame.
— Qualche zona montana verrà certamente lottizzata per favorire gli immeritati ozi stagionali dei privilegiati di città; e tutto ciò accontenta l’ animo sensibile e religioso degli onorevoli locali, che devono molto alle offerte votive. — Si potrebbe fare un bel po’ di mortadella con i nostri asini senza padrone. Ma non si vive di solo pane e mortadella.
Un giorno lo incontrai e si parlò subito dei problemi che ci stavano a cuore. Un autunno, l’ottobre del ‘69.
— Vedi i nostri paesi? Tutti uguali. I ragazzi? Tutti come quelli di Barbiana e dell’acquedotto Felice: c’è da noi una sola grande città, la costa. Qui i don Milani e i padre Sardelli vengono trasferiti, immediatamente. Una speranza: la lettera ai Vescovi abruzzesi dell’ arcivescovo di Chieti, Capovilla.
  Da noi non vengono gli illuminati di Dogliani: meglio per loro. Non sappiamo che farcene dei funzionari delle case editrici che si peritano di raccogliere la cultura borghese nella biblioteca comunale ad uso e consumo domenicale. Scuola e nuova politica agraria. Ma non riponiamo la soluzione dei problemi nelle riforme. Potremo salvarci soltanto a seguito di un rinnovamento globale della nostra società
  Le metropoli si impinguano succhiando risorse vitali ai territori arretrati, in un processo irreversibile e accelerato. La politica dei governi avuti fino ad oggi si riallaccia al vecchio sfruttamento borbonico. Ma quello almeno parlava in altra maniera…
  Cominciai a scoprire il Di Leo veemente de « Una lunga puzza », l’enfant terribile che scherniva la cultura ufficiale paludata di retorica e decadentismo nelle copertine variopinte dei designers più quotati. Un altro Dino, ben diverso da quello del « deserto », delle scorribande notturne.
« Venga avanti chi si dice poeta / qui lo voglio vedere, anche tra gli sterchi di muli / tra le ortiche mosce… / …Qui lo voglio vedere / sui colli o sull’ asfalto / nella sua maniera di fare e di dire ».
La poesia di Di Leo si ispira a temi sociali, politici e d’amore, provando la foga della sua radice montanara nelle forme molteplici di una ricerca linguistica che affronta le consuete strutture metriche, senza tralasciare la sperimentazione d’ avanguardia, come nell’«Abbozzo per un poema d’ inverno », ne « La città da prendere », ne « I patriarchi ».
Come dice Giuliano Manacorda: « Quando ha pensato (forse) di esserlo un enfant terrible , Di Leo ha sbagliato tutto (o quasi), non ha calcolato che siamo (chi non lo sa?) nella civiltà dei consumi e quello che conta, nel mondo della poesia, è il mercato e dunque la ricerca della merce, e del suo produttore che faccia all’ uopo ».
  Ma questo giovane resta (restava, e resta!) nel suo paese dalle case disabitate, col vento che soffia tutto l’ anno, a proclamare la propria schietta natura in maniera appassionata e lucida, senza illusioni. « Io parlo dovunque mi conduci. Qui sta la razza del poeta nato ». Talvolta la sua voce si accentua nell’ esaltazione dell’ arringa, e la vena politica racchiude espressioni peregrine, libellistiche, ma nelle quali s’ intravede la passione sincera dell’ uomo, del cittadino.

Dobbiamo afferrarci alla terra
buttare giù gli altari col tatto:
l’Italia è fatta di milioni di Antonio
con in camera il ritratto di Loren
e all’ occhiello il bottone dell’ Inter.
C’è pure il Marcatré e Quattro
mi fa un cocco milanese,
la tecnica a livello di Montreal.
Quanti canadesi stiamo sfamando?
Sessanta case su cento
conta il sindacato degli scrivani,
non hanno un libro in Italia.
C’è mai stata un’ inchiesta
di quanti cachiamo sui campi?

  Un risentimento deciso scaturisce dagli epigrammi e colora di una tinta violenta i versi, nei quali non è raro che una dispezione improvvisa lo porti a gridare – come dice ancora Manacorda – il rovesciamento di ogni onesto giudizio.
Ma sempre la sua ironia rivela il giudizio preciso, esauriente del contadino, misero sui rivoluzionari da strapazzo, da cinema d’essais.
  Quando lo rividi a Roma, un’altra sera del ‘69, mi venne a prendere a piazzaleClodio. L’aria afosa puzzava di ossido di carbonio, imboccammo via della Giuliana, per tuffarci nell’inferno dei negozi e del traffico a via Giulio Cesare, via Ottaviano, piazzaRisorgimento.
Mi parlò del suo ultimo libro ed appariva euforico. Forse perché più tardi l’avrebbe ricevuto una delle sue « signore » e perciò mi disse che aveva anche premura.
— Per noi l’ideale è rivederci altrove: meglio il clima torrido delle saline che questa piazza. Ci vediamo a Natale, si va da qualche parte con gli amici, dalle nostre parti…
E sparì nella folla formicolante col suo passo da lupo e la testa alta, mormorando qualcosa tra i denti che l’appagava, come faceva durante le nostre «carovane» sulle strade all’alba di un giorno qualunque.

da “Gli ultimi poeti della strada”, di Rolando D’Alonzo, Editrice 5 punti, Chieti, 1973