Luoghi

ASSOCIAZIONE CLEMENTE DI LEO

L’associazione intitolata a Clemente Di Leo è operativa da circa 10 anni e organizza manifestazioni, eventi ed incontri per far conoscere l’opera del poeta di Colledimacine.
Essa è, quindi, promotrice di numerose iniziative. Ultima in ordine temporale è la mostra in programma per la prossima estate e dal titolo “Percorsi sostenibili”.
In paese nel 1996 in occasione del 50° anniversario della nascita del Di Leo si diede vita ad una cerimonia dove relatori furono Giuliano Manacorda, docente universitario, Laura Romani, poetessa e Laura Venturini, autrice della prima tesi di laurea sul poeta.
A questa iniziativa seguì nel 1997 la prima edizione del concorso nazionale di prosa e poesia “Clemente Di Leo”. Membri della giuria furono oltre ai già citati Manacorda e Romani, Pina Allegrini e Massimo Pamio. Per le poesie inedite i vincitori furono ex aequo Silvia Vecchini di Perugia, Matteo Cavallucci di Pescara e Stefania Santalucia di Rocca San Giovanni. Per la ricerca furono premiati ex aequo Danila D’Ausilio di Pescara e Luciana Pasquini di Lanciano. Infine il premio della poesia edita andò sempre ex aequo a Serena Giannico con “I miei anni”, a Francesco Iengo con “Variazioni Goldberg” e a Stefano Stringini con “Rimario D’Oltremura”. Il concorso si è ripetuto nel 2001.
Il 1999 fu l’anno dell’edizione del Festival di poesie: tre giornate intervallate tra cinema, poesia e sport, svolte tra i territori di Colledimacine, Lama dei Peligni e Pizzoferrato.
Nel 2005 le iniziative legate a Clemente Di Leo sono state un’estemporanea di pittura “Frantumi di una reggia azzurra” e un recital di poesie svoltosi in alcuni centri del Sangro-Aventino

Un paese per un poeta di Camilla Lucia D'Alonzo

Un paese per un poeta

di Camilla Lucia D’Alonzo *

 

Dirupi d’Abruzzo sono la mia reggia.
L’ho colorata d’azzurro con la mia voce,
frantumata in getti di parole”.
La poesia di Clemente Di Leo (per gli amici Dino), apprezzata, sin da quando era ancora in vita, da critici di fama nazionale, trae origine proprio da Colledimacine, questo piccolo paese posto su un colle con alle spalle l’imponente massiccio della Maiella, dove egli nacque il 30 marzo 1946. L’amore per la letteratura sboccia dalla prima adolescenza, quando, costretto ad interrompere la scuola a causa di una malformazione cardiaca congenita, si dedica completamente alla poesia, allo studio dei grandi protagonisti della cultura letteraria europea.
Dopo un primo esercizio stilistico e tematico su Dante e Leopardi, Di Leo sviluppa una poetica personale dolce, forte e in visiva proprio come la terra in cui vive. Con l’audacia e l’innocenza propria dei poeti nel 1964 pubblica, a proprie spese, con il ricavato della vendita di una mucca, la sua prima raccolta “Cimeli”, e per attirare l’attenzione del pubblico e della critica finge che i versi siano di un ipotetico Massimo Rocovic, poeta slavo morto suicida, di cui per alcune segrete e misteriose circostanze ha recuperato il manoscritto.
La poesia lo domina completamente, egli vive per essa nonostante la sua professione ufficiale sia quella di daziere, presso il municipio di Colledimacine.
A piedi o in autostop o in corriera, raggiunge Chieti, Pescara, Roma, Urbino ed altre città in cui può seguire da vicino i vari dibattiti letterari che fioriscono alla fine degli anni ’60. E dove non può arrivare fisicamente, arriva con l’immaginazione, spaziando nei suoi versi da Venezia ad Atene, Detroit, Sidney; sino alle colline di Johannesburg e le rive dell’immenso Atlantico.
Con “Frantumi di una reggia azzurra”, raggiunge la maturità poetica. La descrizione dei luoghi natii dà vita ad uno scenario suggestivo di pietre, dirupi, stagni, querce, prati. Un paesaggio colorato di verde e soprattutto d’azzurro, in cui domina l’imponenza della Maiella, montagna di cui Di Leo si definisce “il primo lupo rosso”.
Ma Dino non è poeta di panorami ameni e scorci di vita rurale, ma esaltando la bellezza della natura, pone l’accento sulla durezza della vita nella sua Contea dei ginepri dove “devi spaccare la scorza delle querce con un pugno/ tanta è la forza per poterci vivere”.
Molto profonda è anche la descrizione dei suoi conterranei, “gente dura dalle pupille dolci”; gente spesso costretta ad emigrare in cerca di miglior fortuna lasciando le madri a gemere “tra le canne vuote sino al tramonto”.
La poesia di Dino non si ferma agli aspetti contingenti della vita e alla polemica politica tipica degli anni in cui vive. Sia in “Frantumi” che in “Una lunga puzza”, editate in proprio, emergono la sua personalità letteraria, le sue passioni: l’impegno politico, l’amore fisico, la ricerca di Dio.
La sua opera comincia ad attirare l’attenzione degli esperti, primo fra tutti Giuliano Manacorda, il quale scrive la prefazione alla raccolta “Una lunga puzza”, elogiando l’originalità, la profondità e l’indipendenza della lirica. Nel giugno 1970 vince a L’Aquila il premio “La madia d’oro” con il poema epico “Gilgamesh”, ma soltanto un mese dopo, nel sonno, la morte lo porta via silenziosamente. I suoi versi, incisi sulla lapide tombale ammoniscono:
Educate i bimbi alla morte.
E’ irreale l’unica cosa vera
ma lì scoppiano i colori della vita
da lì ogni uomo è un atleta.
Un uomo ed un poeta come Clemente Di Leo non può essere dimenticato! Non lo hanno dimenticato gli amici, non lo hanno dimenticato i letterati. Nel 1985, è stata pubblicata la raccolta “Poesie”, con prefazione di Manacorda, in una collana diretta da Benito Salone comprensiva di brani tratti dalle opere precedenti e con versi all’epoca inediti. Nel 1996, in occasione del cinquantenario della nascita, in una cerimonia omaggio organizzata dal Comune, hanno partecipato decine di amici e professori, ricordandone la figura umana e poetica.
Non lo ha dimenticato l’Amministrazione comunale che, dal 1996 in poi, ogni anno organizza delle giornate dedicate al poeta concittadino, senza falsi pietismi per la sua morte precoce ma con l’orgoglio di portare avanti un’attività in cui si crede davvero. Nel 1997 è stato organizzato un concorso di poesie per giovani poeti sotto i ventiquattro anni, l’età in cui Dino è scomparso, al quale hanno partecipato numerosi giovani abruzzesi e di altre regioni. Nel 1999 le manifestazioni legate al nome di Di Leo sono diventate itineranti: la prima giornata si è svolta a Colledimacine e le altre due nei paesi limitrofi di Lama dei Peligni e Pizzoferrato, allo scopo di far conoscere ai giovani partecipanti luoghi montani decantati dal poeta.
A questo primo Festival della Poesia, intitolato “La contea dei ginepri”, come la poesia che parla della bellezza e della durezza delle vita in questi paesini di montagna, sono intervenuti anche giovani poeti stranieri, come Anila Hanxari, la quale ha recitato versi molto commoventi sia in italiano che in albanese.
Con queste due iniziative, concorso e festival, si è voluto dare la possibilità a giovani poeti di declamare le loro opere e farsi conoscere, aiutandoli un po’ a superare le difficoltà che anche loro, proprio come era accaduto a Dino, incontrano nel tentativo di affermarsi nel campo della poesia.
L’amministrazione comunale ha intenzione di continuare a pubblicizzare l’opera di Di Leo, con iniziative rivolte ai giovani, anche nell’ambito scolastico. L’ideale sarebbe che la “Contea dei ginepri” diventasse un punto d’incontro per autori che vogliono divulgare le proprie opere, aperto sia alla poesia che ad altre forme d’arte.(…)
(…) Colledimacine, un piccolo centro situato nella Valle Aventina, su di un colle, tra due torrenti, Cupo e Torbido, affluenti di destra del fiume Aventino, sul versante orientale della Maiella. Un paese che può offrire al turista e al visitatore suggestivi scorci e preziose testimonianze storiche come piazza Barbolani in cui risaltano la chiesa di San Nicola di Bari, il palazzo dei conti Barbolani, la Torre con l’orologio, le rovine della chiesa di San Rocco con l’arco in pietra, la fontana monumentale, la pineta. Un paese piccolo, distante dalle grandi realtà urbane, in cui si respira ancora aria pura e si beve un’acqua eccellente che scorre dai fontanili in pietra, con una popolazione ospitale che vuole con determinazione farlo vivere.

____________________________________________________________________________da “D’Abruzzo”, autunno 2001

____________________________________________________* sindaco del Comune di Colledimacine fino al maggio 2006

A zonzo nel patrimonio architettonico di Edoardo Martinelli

A zonzo nel patrimonio architettonico

di Edoardo Martinelli

 

Per chiunque si mettesse a guardare Colledimacine dall’esterno, la prima cosa che balza all’occhio è la collina su cui sorge l’intero centro abitato. La sua conformazione è costituita in gran parte da terreni argillosi con l’imponente piattaforma calcarea su cui è edificato il paese. Dal punto di vista stradale il centro non presenta grosse variazioni. Via Roma, che inizia praticamente alle porte del paese e funge da strada principale, giunge in linea retta fino a piazzaBarbolani. Accanto a via Roma si aprono ad angolo retto altre strade che si aprono su altre tre piazze, Belvedere e Clemente Di Leo. La parte antica del paese è quella collocata su

bito dopo la piazza principale Barbolani e comprende tutto l’abitato in fondo alla collina. Una delle caratteristiche di questo segmento di paese è che le case, 

oggi in gran parte ristrutturate, sono tutte molto strette e slanciate, quasi ammassate in una serie di vicoli stretti e silenziosi. Una curiosità riguarda gli abitanti. Secondo un censimento voluto dagli Aragonesi nel 1447, risulta che Colledimacine contava 30 famiglie, circa 207 abitanti totali. All’epoca i cognomi più diffusi erano i seguenti: Amici, Antonjj, Bianczardi, Chicarelli, Cicci, Ferrectus, Falcus, Giptius, Guillelmi, Joannis, Leonardi, Messere, Masiarelli, Mancinus, Nicolaj, Parza, Rajnaldi, Sacchecte e Sproveri. Alcuni di questi, com’è facile notare, sono giunti fino ai giorni nostri con opportune modificazioni linguistiche e rappresentano ancora famiglie residenti a Colledimacine. Il 1499 è un anno importante dal punto di vista archittettonico e il perché si ritrova scritto su un architrave di una finestra appartenente ad un’abitazione locale. Nella stessa strada si possono poi osservare altri due resti di edifici costruiti intorno al XVI secolo, una finestra ed il portale della casa dell’arciprete. Due pile d’acqua santa in pietra locale, un crocefisso e la statua della Madonna delle Grazie – tutti oggetti appartenenti al XVI secolo – sono conservati nella chiesa di San Nicola. Dal punto di vista amministrativo Colledimacine fu per la gran parte della sua storia moderna un feudo, spesso periferico. Tanto per citare alcuni “signori” che governarono il paese si ricordano, Tiberio d’Ugno di Guardiagrele, che nel 1612 prese possesso della signoria di Colledimacine; a questo succedettero, nel 1669 Nicol’Antonio Trasmondi, marchese di Introdacqua e Francesco di Colledimacine. Il dominio feudale cessò solo nel 1806 quando passò dalla condizione di vassallaggio a quella di libero Comune, sottoposto all’autorità della corona. Un dato significativo riguarda il forte decremento di popolazione che si ebbe tra il 1648 e il 1669. Il paese subì un calo di 81 famiglie corrispondenti al 76,5 percento della popolazione locale. Questo avvenne in gran parte per le conseguenze della peste che in quegli anni si diffuse nel Regno di Napoli e che costrinse le popolazioni superstiti dal morbo a lasciare i luoghi abitati per altri più isolati e sicuri. Il picco più alto di popolazione si ebbe nel 1901 quando raggiunse i 1657 residenti. Negli anni successivi a cause delle guerre mondiali e della crisi occupazionale molta popolazione fu costretta ad emigrare. Tra i paesi principali delle rotte dell’immigrazione ci sono Stati Uniti, Francia, Australia, Canada e Argentina.

Oltre alla chiesa di San Nicola, altri edifici di interesse artistico sono il palazzo del conti Barbolani, eretto nel 1874 con annessa torre dell’orologio; da non dimenticare poi la fontana monumentale, costruita nei pressi della piazza principale nel 1893 e ristrutturata negli anni novanta del secolo scorso. Spostandosi nel territorio comunale – non particolarmente vasto, conta solo 11,4 km quadrati – si possono facilmente trovare antiche abitazioni in pietra risalenti all’ottocento e primi del novecento. Questi edifici erano annessi ai mulini e servivano da abitazioni o stalle per gli animali. Sono un tipico esempio di architettura rurale in via di estinzione e bisognosa di urgente recupero. 

Quel colle di macine e di transumanza di Edoardo Martinelli

Quel colle di macine e di transumanza

di Edoardo Martinelli

 

Sulla derivazione dei toponimi relativi ai paesi le fonti sono spesso scarse e non sempre è facile rintracciare il significato preciso di un nome. Un caso particolare ed ancor più suggestivo è rappresentato da Colledimacine.
Benchè il paese sia collocato in una zone geografica che lo vede circondato da centri con denominazione “peligna” (Lama, Taranta,Torricella), tuttavia ha un nome che non ha nulla a che fare con la storia dei peligni o per lo meno nel suo toponimo vengono messe in luce altre caratteristiche del paese. Già dalle opere dello scrittore latino Plinio scopriamo che Colledimacine doveva essere un centro di raccolta di manodopera per i centri industriali circostanti che gravitavano nell’orbita della città romana di Juvanum. Plinio cita il paese con il nome di “Collis Macinarum”. In queste prime informazioni possiamo ricavare sicuramente una prima preziosa notizia sul paese, cioè che le “macine” in quanto strumento di lavoro erano fondamentali nell’economia del paese, tanto da meritarsi il merito di dare nome al piccolo villaggio montano. Intanto Colledimacine non possedeva importanza solo dal punto di vista industriale, ma anche logistico. Posto a ridosso del valico di Coccia (1605 metri di altitudine) il centro era collocato su una collina che faceva da spartiacque tra la valle dell’Aventino e i territori di Campo di Giove. Sicuramente i traffici romani che provenivano dall’attuale Campania passavano dal valico e si capisce perciò l’importanza, come via di comunicazione, di Colledimacine. A testimonianza dell’antico passato romano, antiche fonti parlano di un tempio dedicato alla dea della caccia, Diana, che sorgeva proprio sul colle dove è posizionato ora il paese, in corrispondenza dell’attuale piazza centrale.
In questa piccola realtà inoltre troviamo tracce significative dell’antica tradizione abruzzese della “transumanza”. A partire dal medioevo gli allevatori di bestiame spostavano le greggi dalla Puglia, in particolare dalla Daunia, fino alle colline chietine, proprio per dare la possibilità agli animali di pascolare su terreni ricchi di erba. Accadeva così che Colledimacine veniva a trovarsi al centro di questo tracciato della transumanza che, oltre agli animali, conduceva con sé agricoltori con intere famiglie a carico. Il fenomeno, che è durato fino agli inizi del novecento, ha creato forti ripercussioni sul tessuto sociale del paese. Infatti non è raro trovare nelle usanze locali espliciti rimandi alla tradizione pugliese, tanto nell’arte culinaria, quanto nelle credenze religiose.
Molti allevatori poi si sono anche stabiliti qui, creando di fatto una piccola forma di immigrazione tra le pianure del foggiano e alture delle colline di Colledimacine.
Accanto a “colle”, l’altro nome che caratterizza Colledimacine è appunto la “macina”. Questo strumento di lavoro aveva un’importanza notevole e veniva prodotto grazie a pietre ruvide e rugose. Alcune fonti, non confermate, sostengono che nel territorio di Colledimacine sorgesse una fabbrica di tali strumenti. Anticamente queste macchine venivano azionate dall’energia idraulica – la presenza di abbondante acqua in paese è testimoniata dalle diverse fontane presenti e tuttora funzionanti – che spingeva al movimento le pulegge. L’acqua veniva spesso incanalata in appositi scavi e il suo scorrere  permetteva il funzionamento continuo delle macine. A partire dagli anni ’30 del novecento le macchine furono azionate da un motore a corrente elettrica, che permise un maggior rendimento delle stesse e minore fatica da parte della manodopera. Oggi è possibile ammirare in paese delle testimonianze oggettive di quel passato di fatica: in vari punti infatti sono collocate delle vecchie macine e ruote da mulino per grano e granoturco.